Another road for Europe? Maybe

di Giuseppe Caccia
Apparso su GlobalProject

Centocinquanta persone provenienti da differenti Paesi di tutto il Continente hanno partecipato giovedì 28 giugno a Bruxelles, in un’aula del Parlamento Europeo, al Forum “Another Road for Europe” (in appendice l’elenco delle realtà presenti). Data e luogo scelti non a caso: il giorno d’avvio del decisivo vertice del Consiglio d’Europa, a meno di trecento metri dall’edificio dove sono in riunione i Capi di governo degli stati dell’Unione per discutere di crisi dell’Eurozona.

Il Forum, nato dall’omonimo appello e introdotto dagli interventi dei promotori Rossana Rossanda e Mario Pianta, ha visto un confronto a tutto campo tra economisti, sociologi e politologi insieme ad esponenti dei movimenti sociali, delle organizzazioni sindacali, della società civile, con partiti e parlamentari europei (Verdi e Sinistra, ma anche Socialisti e democratici, compreso qualche nostrano PD). E’ impossibile dare qui conto per intero della ricchezza della discussione, prolungatasi per quasi dieci ore, ma cercheremo di segnalarne gli spunti più significativi.

DOMARE LA FINANZA

Il Forum si è articolato in tre sessioni di lavoro. La prima, dedicata a moneta unica, mercati finanziari, debito e politiche fiscali, è stata introdotta da Trevor Evans (della rete di economisti che redigono periodicamente il rapporto Euromemorandum) con un intervento che ha denunciato la condizione di “democrazia sospesa” a fronte dello strapotere della finanza e sottolineato come il dibattito ufficiale sia condizionato a monte da un’ “analisi fuorviante del problema”, in cui viene rimosso come l’origine della crisi del debito sovrano europeo sia da collocare nella crisi dei mutui statunitensi del biennio 2007-2008. Le banche europee sono state “affogate dai sub-prime” che avevano cartolarizzato, gli Stati europei sono corsi in loro soccorso facendo lievitare il debito pubblico e le minori entrate fiscali, in conseguenza della recessione di produzione e consumi, hanno fatto il resto.

A partire da questa lettura, Evans ha presentato una serie di proposte, poi in parte riprese e sintetizzate nel comunicato finale, tra le quali l’introduzione della settimana lavorativa di trenta ore, strumenti di “controllo sociale delle multinazionali” (l’attenzione critica è stata soprattutto puntata sulle centrali finanziarie – ha sostenuto – ma gli attori principali, anche delle dinamiche speculative, sono prevalentemente le grandi corporation), la ridefinizione della “posizione dell’Unione Europea nel mondo”, in particolare nel rapporto con il suo Sud, e la riduzione del consumo delle materie prime, anche per tagliare le emissioni di gas serra.

Ne è seguito un dibattito ampio: per Antonio Tricarico (re:common) bisogna capire “come riappropriarsi a livello europeo della finanza pubblica e sganciarla dalla speculazione finanziaria privata”, ad esempio – ha suggerito – rilanciando il ruolo delle banche d’investimento pubbliche, oggi dipendenti dal mercato finanziario. Per Jorgos Vassilikos, con il controllo dell’Eurogruppo, cioè della riunione dei ministri economici, sui bilanci nazionali si avvera il “sogno antidemocratico” descritto dal rapporto della Trilateral del 1975. Mentre sono impressionanti le cifre fornite da Andrea Banares (Fondazione Responsabilità Etica): il debito pubblico italiano corrisponde a meno dell’un per cento delle migliaia di miliardi di dollari in prodotti derivati, controllati dalle quattro più importanti banche d’affari di Wall Street. E solo in Italia il peso dei derivati è cresciuto negli ultimi vent’anni del 642 %, venticinque volte più del Pil. E’ la temporalità dei mercati finanziari, e della loro crisi in rapporto a quella della politica a risultare drammaticamente asimmetrica: per Banares, con la risoluzione del Parlamento Europeo a favore dell’introduzione della Tobin Tax, ovvero della tassazione delle transazioni finanziarie (TTF), si apre “uno spiraglio”, ma ci sono voluti vent’anni di campagne (e la portata della crisi) per arrivare a questa decisione politica, peraltro non ancora esecutiva, mentre bastano pochi millesimi di secondo per una decisione finanziaria dagli “effetti nocivi” devastanti.

Problematico, a mio avviso, l’intervento di Klaus Suehl (Rosa Luxemburg Stiftung): la sua insistenza, al ritorno da un viaggio ad Atene, sulla “necessaria solidarietà” da portare ai “popoli vittime della crisi” non può essere considerato solo un retaggio da cultura terzomondista anni Sessanta, ma è molto più rilevatore di un atteggiamento diffuso nella sinistra tedesca, che rischia di inibire invece la ricerca di una pratica sociale e politica comune del comune spazio europeo.

Sono seguiti gli interventi dei parlamentari europei: il ritorno rispetto alle questioni poste, e riassumibili nell’urgenza di stabilire forme di controllo sociale e democratico sulle dinamiche dei mercati finanziari, è stato senza alcun dubbio positivo, ma è difficile nascondere la sorpresa per il fatto che pure gli eurodeputati del Partito Democratico italiano, con alcuni tratti di involontaria comicità, quando “giocano in trasferta” appaiano quasi “estremisti”, dimentichi del sostegno generosamente offerto al Governo Monti e alle sue politiche.
A chiudere la sessione poche, ficcanti parole di Rossana Rossanda: a ricordare, dopo gli interventi di esponenti della CES (la Confederazione europea dei sindacati), come di fronte al quadro descritto non solo nessuno immagini l’indizione di uno sciopero generale continentale, ma addirittura i sindacati in Europa non si facciano “neppure una telefonata fra di loro”. Certo, le organizzazioni sindacali – ha aggiunto – non hanno più “alcun effettivo potere, ma sono troppo tranquilli per questo”. Insomma, la sinistra che lei ha conosciuto è stata sconfitta, negli ultimi trent’anni in Europa, ma “almeno, cominciate a parlarvi tra di voi.”

EVITARE UNA GRANDE DEPRESSIONE

La seconda sessione, in mattinata, si è occupata di “green new deal”, occupazione, conversione ecologica e beni comuni. Introdotta da Danny Lang (rete degli Economistes atterrés) intorno all’interrogativo su come “migliorare lavoro e welfare, senza tornare all’impossibile riproposizione del vecchio modello industrialista”, la relazione di Pascal Petit (Université Paris XIII) ha preso le mosse dalla constatazione che la stessa agenda politica neoliberista è diventata “ostaggio della finanza, controproducente rispetto ai suoi stessi fini”, insomma è andata “troppo in là”, trovandosi incastrata nella sua stessa “trappola ideologica”. Tutti i suoi paesi modello, di diversi modelli comunque sotto il segno del neoliberismo trionfante, sono in crisi, anche quando la nascondono: vale per gli Stati Uniti, così come per Germania e Gran Bretagna. E servono certo strumenti giuridici più avanzati per mettere a nudo e contenere gli effetti delle “debolezze” del sistema finanziario, ma non guasta anche il ricorso al “caro vecchio sistema del boicottaggio” di banche e istituzioni finanziarie. Questo per arrivare a rivedere e rafforzare le basi fondamentali dei servizi pubblici, anche a livello locale, molto erose negli ultimi vent’anni.

Ricchi di proposte, anche pratiche, per un rilancio in chiave ecologica e sociale dell’economia, gli interventi di Etienne Lebeau (Joint Social Conference), Giulio Marcon (sbilanciamoci!), Thomas Coutrot (Attac France) e Michele De Palma (FIOM). Quest’ultimo, in particolare, ha ricordato come oggi l’esercizio stesso della contrattazione sia impossibile per milioni di lavoratrici e lavoratori in Europa e come manchi un autentico sindacato europeo, una “coalizione di lavoratori” in grado di imporre un contratto continentale unico, incardinato su minimi salariali, limiti all’orario, diritti e superamento della precarietà. Per De Palma non basta discutere che cosa fa la finanza, ma è necessario interrogarsi su “quale crescita”, ragionare sull’intero processo produttivo, impedendo che la responsabilità per produzioni inquinanti e nocive sia scaricata, col ricatto, sui lavoratori. Allo stesso modo è indispensabile introdurre un reddito garantito per le giovani generazioni, per evitare che su di esse possa esercitarsi il ricatto della disoccupazione: uno strumento per “ricostruire autonomia, da Marchionne come dalla Lehman Brothers”.

Per l’economista Mariana Mazzucato (Open University, GB), bisogna “provocare i sindacati”, la loro è una strategia tutta difensiva e l’offensiva è ancora debole. Eppure servirebbe per porre con forza una grande questione redistributiva della ricchezza, “non solo per costruire un nuovo welfare, ma per andare a prendersi le risorse là dove si produce effettivamente valore.” E più risorse pubbliche andrebbero indirizzare proprio per investire nella ricerca delle tecnologie verdi. Sian Jones (European Anti-Poverty Network) ha sottolineato la paradossale scarsa attenzione che viene dedicata, nel tempo della crisi, alle politiche di welfare: “l’agenda sociale europea sembra essere sparita”. E invece nuovi servizi sociali di protezione dovrebbero essere coniugati con le campagne contro razzismo e discriminazione. Ed è il momento giusto per pretendere una Direttiva dell’Unione Europea che disciplini livelli comuni ed universali di “reddito minimo”.

Il contributo dell’attivista bulgara Mariya Ivancheva (European Alternatives) ha riportato l’attenzione sul tema dei beni comuni. Ci sono lotte di cui poco si sa a livello continentale: proprio in una Bulgaria apparentemente pacificata, migliaia di persone si sono negli ultimi mesi mobilitate contro la politica silvicola dell’Unione Europea, che serve ad avallare la sistematica distruzione di migliaia di ettari di foreste nei Balcani. Tommaso Fattori (Forum dei movimenti per l’acqua) ha insistito su come il conflitto intorno ai “commons” stia al centro in Europa della battaglia per il “recupero dal basso di sovranità da parte di cittadini”. Per Jason Nardi (Social Watch), infine, bisogna de-industrializzare la produzione agricola, cancellarne il sovvenzionamento per incentivare gli investimenti veri, contribuire alla riduzione dei consumi, con scelte da “imporre anche in modo proattivo”.

Il giro di tavolo dei rappresentanti istituzionali è stato aperto da uno Stefano Fassina (PD) molto più prudente e “governativo” di chi lo aveva preceduto, ma che di fronte alla crescita innegabile dei divari sociali ha sottolineato il bisogno di “alleggerire la pressione fiscale sui cittadini lavoratori”, altrimenti si rischia nel breve termine il “rifiuto dell’Europa”. Dopo Marisa Matias (parlamentare portoghese della GUE), ha preso la parola Nichi Vendola che, in un’ottica politica, ha segnalato come tra crisi della sinistra, cioè “crisi di un punto di vista autonomo” sul mondo, e crisi dell’Europa, cioè di un “modello di incivilimento che aveva stabilito un rapporto culturale e costituzionale tra lavoro e libertà”, vi sia uno strettissimo rapporto. Tanto che “rinnovamento della sinistra e costruzione europea” stanno sul medesimo terreno.

UN’EUROPA DEMOCRATICA

La sessione pomeridiana, e conclusiva, è stata dedicata alla partecipazione e ai processi reali di “decision making” a livello continentale. Monica Frassoni (copresidente dei Verdi europei) non si è limitata a denunciare lo storico deficit democratico delle istituzioni comunitarie e lo “squilibrio di poteri” nel rapporto di governance tra i loro stessi organismi con la triangolazione tra Parlamento, Commissione e Consiglio, in rigoroso ordine crescente di peso effettivo. Ma ha segnalato anche i rischi connessi ad un “permanente andare avanti e indietro” nella costruzione europea.

Rossana Rossanda si è domandata perché i popoli europei non credano nell’Europa, e la vocazione europeista sia rimasta una cultura politica d’élite, proprio nel continente che aveva inventato la democrazia come “forma di distribuzione del potere in una società”. La risposta sta nel vizio d’origine degli accordi di Maastricht del 1992, quando la comunità è stata fondata su un elemento estraneo alla politica, cioè l’economia. E, all’interno di questa, sull’elemento più astratto, cioè la moneta. La rappresentatività di chi governa realmente in Europa è quella delle forze economiche dominanti, perché si è passati dal “rapporto tra sovrano e popolo a quello tra forze economiche e forze politiche”, con le seconde al diretto servizio delle prime. Perciò la sfida dovrebbe consistere nella costruzione di un potere politico che sia, in chiave contemporanea, almeno all’altezza della settecentesca “divisione dei poteri” e dell’ottocentesco riconoscimento dei “diritti del lavoro”.

Susan George ha puntato in particolare la sua attenzione sul documento Van Rompuy-Draghi-Barroso-Juncker, in queste ore in discussione al Consiglio: un “manifesto antidemocratico” che consegna poteri enormi ad autorità non elette da nessuno, che procede “rapidamente” su una strada che deve essere bloccata dall’ “unità di un fronte del rifiuto”. E di fronte al quale non abbiamo tanto tempo.

E’ seguito un nutritissimo dibattito tra i cui contributi “dal basso” segnalo qui, al volo per ragioni di spazio, quelli di Hilary Wainwright (rivista Red Pepper), Pier Virgilio Diastoli (European Movement e Permanent Forum Civil Society), Pierre Jonckheer (presidente della Green European Foundation), Fabienne Orsi (Attac France), gli indignados di Barcellona Daniel Seco e Sergi Diaz, Raffaella Bolini (Arci), Walter Meier (Transform) e Roberto Musacchio (Altramente), tutti con accenti diversi orientati all’importanza di un processo costituente di uno spazio democratico europeo, a partire da un’idea non formale ma conflittuale di democrazia.

Tra di essi particolare forza ha avuto il contributo di Lorenzo Marsili (European Alternatives) nel richiamare alla necessità di “fare politica a livello europeo”. Dopo aver citato i casi in cui ciò non è avvenuto, dallo sciopero generale continentale contro le politiche di austerity, alla difesa della Grecia dall’attacco subito e in corso, fino al rifiuto del fiscal compact – e non a caso il cruciale vertice del Consiglio europeo non ha visto contrapporsi alcuna visibile forma di protesta – Marsili ha indicato nell’esigenza che i partiti “cedano sovranità”, verticale e orizzontale; nell’elaborazione di una vera e propria “strategia politica” comune a livello continentale; nella costruzione di un programma di movimenti e società civile in vista del voto europeo del 2014, gli obiettivi minimi di questa fase.

La stessa Rossanda, in chiusura, è tornata sulla preferenza per un’ “ipotesi costituente transnazionale”, perché è la portata del cambiamento in atto a richiederla; mentre Mario Pianta ha indicato le tappe successive di un “lavoro congiunto” che qui ha avuto inizio.

MA … CONCLUSIONI PROVVISORIE

Credo che la discussione di Bruxelles abbia fatto compiere a tutti i suoi partecipanti un significativo passo in avanti. Le molto ragionevoli misure keynesiane di governo della finanza e di stimolo ad uno sviluppo non distruttivo e sostenibile, che qui sono state illustrate e che in parte sono recepite dal comunicato finale (riprodotto qui sotto), iniziano infatti a descrivere i contorni di una proposta di alternativa larga, immediatamente collocata sul terreno sociale ed ecologico. Questa proposta può davvero essere considerata patrimonio comune e condiviso delle differenti esperienze che qui si sono ritrovate.

Ma non si può fare a meno di sentirsi in sintonia con le realistiche “sgradevoli” considerazioni di Rossanda. Bisogna imparare tutti a dirsi la verità. E soprattutto le verità scomode. Realizzare anche solo un decimo dei ragionevoli obiettivi indicati dal Forum implicherebbe ed implica un drastico rovesciamento dei rapporti di forza, sociali e politici, dati. Insomma, per dirla con una formula: l’alternativa si presenta finalmente “ricca di contenuti”, ma drammaticamente “povera di forza”.

La discussione intorno alla questione democratica in Europa impone allora il tentativo di rispondere alla domanda: da dove partire affinché l’alternativa non risulti velleitaria?

La sensazione, più che una previsione che, di questi tempi, nessuno dovrebbe azzardarsi a fare, è che “Loro” cioè i signori riuniti a trecento metri di distanza nel palazzo del Consiglio stiano accelerando il processo di unificazione politica, certo sotto il segno delle politiche economiche neoliberiste e del deficit democratico, che fino a questo punto ci hanno portato. Quando si affrontano i temi dell’Unione fiscale e di quella bancaria è di questo processo che stiamo assistendo al consolidarsi.

E, allora mai come oggi, vi è la necessità che faccia irruzione sulla scena, su questa scena, un potere costituente radicalmente democratico, che sia nutrito da una nuova stagione di conflitto sociale in Europa. Perciò questa necessità marcia di pari passo con l’affermarsi di una capacità di pensare ed agire con modalità costituenti innovative, anche nelle relazioni tra di noi, nel campo di chi vuole costruire l’alternativa. E’ il tema delle “coalizioni” e riguarda tutti perché nessuno può più dirsi né esercitarsi da autosufficiente. Nel nostro piccolo, con le giornate di Francoforte, ci abbiamo provato. Ma l’idea delle coalizioni in Europa, da verificare nel vivo dei conflitti del presente, deve interessare ogni piano, quello dei movimenti sociali così come quello sindacale, tra le autonomie locali così come sul piano direttamente politico. E, allo stesso tempo, tra questi differenti livelli dev’essere instaurata una nuova dialettica intessuta di relazioni reali.

Ecco dunque il limite, ma anche la sfida stimolante che la discussione di Bruxelles ci consegna. Perché, come ha detto un certo Cesare Prandelli, “abbiamo capito che oltre alla tecnica, ci vuole la qualità e il cuore.” E se si mettono in campo tutti e tre questi elementi, si può provare sul serio a mandare a casa i custodi del “rigore” (così come si è fatto con quelli “dei rigori”) che schiacciano la democrazia, la vita e i diritti di milioni di donne e uomini d’Europa.