3 Domande a Sandro mezzadra

di Giampaolo Faella

Sandro Mezzadra, professore all’Università di Bologna, studioso dei rapporti tra globalizzazione, cittadinanza e migrazione, parteciperà al Transeuropa Festivala Bologna, in 12 maggio, in una tavola rotonda sulla Carta europea dei beni comuni. Lo abbiamo intervistato sulle sfide attuali dell’Europa.

Quest’anno il Transeuropa Festival, nelle quattordici città coinvolte, affronta tre temi: nuove forme di partecipazione politica, migrazioni, alternative economiche. Avendo seguito il Festival nelle precedenti edizioni, come vedi il ruolo di questo evento in un simile momento di transizione e incertezza per tutta la zona-euro e oltre?

Più che di incertezza e di transizione parlerei, certo con un termine un po’ abusato, di crisi del progetto europeo. Da questo punto di vista penso che ci sia una sfida per tutti noi, e per voi che organizzate il festival, e per chi, come me, ormai da diversi anni cerca di pensare la politica dentro uno spazio europeo. Questa sfida consiste, per dirla in due parole, nel pensare radicalmente questa crisi. Voglio essere meno generico: il problema è che molti di noi, e credo anche il festival, hanno collocato il proprio ragionamento sull’Europa e le proprie pratiche europee “dentro e contro” – per usare un’altra formula molto diffusa – uno spazio istituzionale europeo. Per me il problema che si dovrebbe discutere nel prossimo festival è il seguente: è ancora possibile far ciò, oppure dobbiamo aggiornare i nostri ragionamenti e prendere congedo, in fondo, da quello spazio istituzionale per ripensarlo radicalmente? E’ una domanda che pongo che credo debba essere al centro delle discussioni del prossimo festival.

Il candidato dell’estrema destra alle presidenziali francesi, recentemente, ha riproposto di mettere in discussione il diritto di libera circolazione  all’interno dell’Unione. Nel frattempo, in tutta Europa la detenzione amministrativa dei migranti irregolari è la risposta più diffusa ai movimenti migratori. Si può dire che le migrazioni non sono ancora accettate come un grande fenomeno europeo con cui relazionarsi senza isterie? E, se sì, come le opinioni pubbliche possono uscire da questa impasse?

Anche qui credo che si debba ragionare sulla congiuntura specifica che stiamo vivendo. La crisi economica non è priva di ricadute sulla condizione dei migranti, sui modi in cui l’Europa si rapporta alle migrazioni, e sugli stessi movimenti migratori. Per quel che riguarda la prima parte della domanda ricordo che già lo scorso anno c’era stato un tentativo di mettere in discussione lo spazio di libera circolazione, in occasione dell’arrivo di alcune migliaia di migranti tunisini dopo l’avvenuto cambiamento di regime. Fu allora proprio Sarkozy, il presidente francese, a farsi portavoce di una proposta di riforma in senso puramente restrittivo del regime di Schengen. Non dimentichiamo, inoltre, quanto era successo in Danimarca, dove c’era stata una sospensione della libera circolazione.

Questo fa capire come sia radicalmente in discussione il progetto europeo. Dal punto di vista simbolico i due elementi fondamentali del progetto europeo, in questi anni, sono stati Schengen, come abolizione dei confini interni, e l’Euro; il fatto che entrambi questi elementi di grande valore simbolico siano stati duramente messi in discussione ci fa capire quanto sia profonda la crisi del progetto europeo.

Nel tuo lavoro proponi di considerare la migrazione come un movimento sociale in senso pieno, una forza creativa e dirompente all’interno delle strutture economiche, sociali, culturali. Una forza che è diventata particolarmente evidente nel panorama Europeo degli ultimi anni, a partire dalle tante “rivolte migranti” che sono scoppiate in Europa, dalla rivolta di Rosarno e i migranti sulla gru nel 2010 in Italia, alle rivolte di Vincennes in Francia. Come descriveresti queste soggettività emergenti? Come ci portano a ripensare il significato stesso di cittadinanza europea?

Qui i discorsi vanno contestualizzati. Io ho cominciato, insieme ad altri, a parlare di migrazione come movimento sociale una decina di anni fa, nel tentativo di costruire uno spazio di azione politica che fosse all’altezza della dimensione transnazionale dei movimenti migratori e delle sfide che a me sembrava i movimenti ponessero rispetto alla cittadinanza. In quel momento parlare di cittadinanza significava parlare di cittadinanza europea in un senso molto determinato. Dopo l’istituzione della cittadinanza europea gli anni ’90 testimoniano un periodo di grande vivacità della discussione tanto accademica e intellettuale, quanto politica e mediatica sui temi della cittadinanza, e in particolare della cittadinanza europea che stava destando grande aspettativa. Cittadinanza transnazionale significava uno spazio che sembrava in qualche modo affrancarsi dalla rigidità e dalle eredità più pesanti del nazionalismo, che aveva comunque rappresentato una sorta di ombra, di rovescio nella storia della cittadinanza in Europa.

Come dicevamo e come scrissi, la cittadinanza non è un obiettivo, ma un terreno di conflitto. Tuttavia, dicendo questo, identificavamo alcuni passaggi che ci sembravano, da un punto di vista pratico, importanti da forzare, come ad esempio la campagna sulla cittadinanza di residenza. Io avevo le mie riserve, ma riconoscevo quella campagna come un elemento importante che qualificava e arricchiva quel campo conflittuale che mi sembrava essere la cittadinanza europea. Senza dimenticare la riflessione sul superamento della caratteristica giuridica fondamentale della cittadinanza europea come cittadinanza di secondo grado, e dunque sulla possibilità di una naturalizzazione diretta, come acquisizione diretta della cittadinanza europea, senza passare attraverso una cittadinanza di uno degli stati membri.

Tutti discorsi che oggi mi sembra un po’ difficile riproporre, e che infatti mi sembra nessuno attualmente riproponga con l’enfasi, con la convinzione e con la passione con cui emergevano alcuni anni fa. E allora torno alla questione da cui sono partito: l’esigenza di un momento di riflessione radicale su che cosa è cambiato, e sui nuovi strumenti, sui nuovi linguaggi di cui abbiamo bisogno oggi per far fronte alla crisi alla quale ci troviamo di fronte.

Dal Nordafrica molti giovani guardano all’Europa come a un modello democratico, mentre, dall’Europa, diversi più o meno apertamente sperano in un rivolgimento sociale qui da noi che sia paragonabile per intensità a ciò che sta avvenendo lì.
Si illudono entrambi o questa generazione ha davvero qualcosa per cui lottare insieme?

Partiamo intanto dal fatto che le illusioni, l’immaginazione, le fantasie, spesso hanno effetti reali importanti, i quali non sono meno reali per il fatto di essere prodotti da illusioni e fantasie; mi pare che lo scorso anno abbiamo vissuto proprio una fase di questo genere, in cui senz’altro c’è stata una serie di “effetti di sponda” sulle due rive del Mediterraneo. Io credo che quegli effetti agiscano ancora, tanto nel Maghreb e nel Mashrek quanto in Europa. Il movimento Occupy, soprattutto nella sua prima manifestazione europea, quella spagnola, non sarebbe immaginabile senza quell’effetto di sponda.

Detto questo dobbiamo anche analizzare quanto di fittizio e anche di fuorviante c’è nelle illusioni, se le chiamiamo così. Mi pare che ci sia però un problema davvero fondamentale che si deve avere la forza di affrontare, ma soprattutto di imporre politicamente. Se vogliamo pensare alla costruzione di un nuovo spazio euro-mediterraneo, non può essere immaginato semplicemente come calco del partenariato e degli accordi di cooperazione che esistono. Esso non può essere immaginato come spazio di libertà, di uguaglianza, se non si mette in discussione il radicale squilibrio che esiste tra le due sponde del Mediterraneo dal punto di vista della libertà di movimento, il che ci riporta al tema delle migrazioni. Se non si interviene su questo non si riesce a immaginare un riequilibrio, lo spazio euro-mediterraneo non sarà uno spazio di libertà, di uguaglianza, di democrazia.

La costituzionalizzazione del rigore finanziario è l’ultima ricetta proposta dai governi per la sicurezza dei bilanci pubblici, mentre culture della sinistra si dividono tra amanti della crescita e profeti della decrescita. C’è spazio per un maturo dibattito pubblico europeo o dovremo assistere ancora a stucchevoli riunioni inter-governative?

Questa è la domanda fondamentale. Io francamente vivo questa misura come una pietra tombale sulla possibilità di agire lo spazio istituzionale europeo. Se non si rompe questo e tutto quello che c’è attorno alla costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, ho l’impressione che gli spazi di agibilità saranno veramente ridotti. A questo punto dobbiamo prendere atto del fatto che negli ultimi due anni in Europa c’è stata davvero una trasformazione della rivoluzione materiale. Étienne Balibar parla di una rivoluzione dall’alto: mi pare una formula adeguata. Di fronte ad una trasformazione della costituzione materiale che assegna di fatto un nuovo ruolo a pezzi di istituzioni europee a me pare davvero che l’unica possibilità, a meno che uno non voglia ripiegare su un nazionalismo economico impotente e foriero di sventure, è quella di lavorare per l’apertura di una vera fase costituente, in Europa.

Il problema è che fare questo discorso significa assumere la necessità della rottura di cui parlavo prima. Non si può pensare a una assemblea costituente che viene convocata con le attuali leggi elettorali e che trasformi l’Unione europea da quello che è adesso in un’unione politica. Io credo, invece, che la trasformazione della costituzione materiale di cui parlavo prima rende quella strada impossibile. Parlare di fase costituente vuol dire perciò non parlare semplicemente di un evento: l’assemblea costituente convocata elettoralmente. Significa al contrario assumere un tempo medio-lungo, di cinque o dieci anni, in cui si prepara materialmente il momento costituente, in cui si cominciano a costruire elementi di organizzazione anche istituzionale.

È importante approfondire i dibattiti a cui facevi ricevimento, su crescita e decrescita, possibilmente trovando un altro linguaggio. Non trovo che questa opposizione sia molto produttiva. Penso che bisognerebbe partire da quello che ci troviamo di fronte, dalla prospettiva che dal punto di vista economico ci viene presentata dall’insieme delle politiche che hanno nella costituzionalizzazione del pareggio di bilancio il loro momento simbolico più significativo. E quindi bisogna confrontarsi con temi molto grossi, con le trasformazioni radicali che la finanziarizzazione ha determinato nel capitalismo. Queste sono le questioni fondamentali a  mio giudizio da porre, e spero che ci siano le condizioni politiche, prima di tutto, e non solo intellettuali, per porle. Al festival si potrà cominciare a parlare di questo.