Le ragioni politiche di uno sgombero

1-SCUP-rioccupaLa mattina del 7 maggio forze dell’ordine e ruspe hanno sgomberato e reso inagibile uno degli storici spazi sociali occupati della Capitale: SCUP (Sport Cultura Popolare).  Sin da subito, attivisti e abitanti del quartiere si sono mobilitati tanto in rete quanto occupando fisicamente via Nola per impedire la distruzione dell’edificio. La strada riempita di libri, strumenti musicali, attrezzi da palestra è stata l’immagine più forte della difficile mattinata: SCUP per quasi tre anni è stato un punto di riferimento fondamentale nell’offerta cittadina di cultura e sport popolari. “Devastazione e saccheggio: questa la vostra città”, lo striscione appeso davanti alle forze dell’ordine dispiegate, rende l’idea del clima diffusosi tra gli attivisti romani.

La loro reazione, tuttavia, è stata forte e determinata: convocata una manifestazione per le vie del quartiere alle ore 18, quest’ultima si è risolta in una nuova occupazione di uno stabile di proprietà delle ferrovie dello stato lungo via della Stazione Tuscolana. Il punto cruciale, infatti, rimanda ad un problema molto più complesso rispetto al semplice ennesimo episodio di chiusura di una spazio occupato e autogestito (solo di pochi giorni fa la notizia dei sigilli opposti al tendone di un altro centro sociale romano, il Corto Circuito). Rimanda all’intera e complessiva idea di “città” che si ha e che si vorrebbe egemonica; città interpretata nel suo più amplio significato di luogo aperto di partecipazione e mobilitazione, di scambio, di produzione culturale e politica.

Questo lo sforzo che numerose realtà romane (dall’esperienza del teatro Valle, divenuta quasi paradigmatica, fino al Cinema palazzo, passando per Communia, solo per citarne alcuni) stanno provando a portare avanti nonostante l’evidente immobilismo dell’attuale Giunta. La questione è di fatto politica: quando si parla di spazi auto-organizzati non si parla semplicemente di meri luoghi di aggregazione, bensì si parla di restituzione alla cittadinanza del suo “diritto alla città”; si parla di città come “bene comune” da coltivare; si parla di costruzione di un nuovo modello di welfare da contrapporre alla crisi culturale, sociale ed economica in corso in tutta Europa.

SCUP e tutte le esperienze simili rappresentano quel moto, dal basso e orizzontale, che restituisce dignità e speranza in uno scenario, quello romano ma anche italiano, volendo europeo, in cui il distacco abissale tra il significato di “politica” (occuparsi del bene pubblico) e una Giunta che si trincera dietro la scusa delle “competenze” non spettanti al Comune, si evidenzia con intensità tale da mettere in discussione il valore stesso della rappresentanza. Fare politica non è eseguire, ma immaginare la città che si vorrebbe e come la si vorrebbe vivere: qualcosa che il nuovo SCUP di sicuro farà.

Di Federica Baiocchi