Dec 7, 2010
Lo sviluppo è libertà? Il caso Bhopal
(“Ruby who survived the disaster”. Photo di: Greenpeace. )
Guardandosi attorno ai nostri giorni, sembra che le parole come democrazia, sviluppo, modernità, siano diventate contenitori di una vuota retorica senza significato. Troppo spesso si portano esempi di buona o cattiva governance, in particolar modo basandosi su criteri economici camuffati per l’occasione da diritti umani.
Come dice Amartya Sen, premio Nobel 1998 per l’economia, nel volume Lo sviluppo è libertà:
“lo sviluppo deve essere inteso come un processo di espansione delle libertà reali di cui godono tutti gli esseri umani, nella sfera privata come in quella sociale e politica. Di conseguenza la sfida dello sviluppo consiste nell’eliminare i vari tipi di ‘illibertà’, tra cui la fame, la miseria, la tirannia, l’intolleranza e la repressione, l’analfabetismo, la mancanza di assistenza sanitaria e di tutela ambientale, la libertà di espressione, che limitano o negano all’individuo, uomo o donna, la capacità di agire e di costruire la vita che preferisce“.
Le sue parole sembrano un perfetto prontuario della democrazia perfetta, che spesso viene citata ma che nel concreto viene messa in secondo piano da criteri opportunistici ed economici. Leggendo spesso della forza economica delle tigri asiatiche, c’è da chiedersi se si possa davvero parlare di queste come esempi virtuosi, o piuttosto si dovrebbero spronare ancor di più a garantire quantomeno i diritti fondamentali delle loro popolazioni.
Nel caso dell’India, le divergenze di reddito, diritti, non sembrano essersi attenuate, nonostante il forte sviluppo degli ultimi vent’anni. Allora viene da chiedersi se sia lecito definire tigre un paese dove la distinzione in caste, pur non avendo valore giuridico, rimane profondamente radicata. E dove ancora intere fasce di popolazione non hanno accesso al sistema sanitario. A proposito di questo argomento, nel mese di Giugno 2010 è tornata alla luce, anche se soltanto per qualche giorno, l’argomento del Bhopal, stato indiano dove nel 1984 si è consumata la più grande catastrofe industriale della storia; argomento tra l’altro passato quasi del tutto inosservato dai Mass Media nostrani.
L’incidente avvenne nella notte alla mezzanotte del 3 dicembre 1984: dalla multinazionale Union Carbide India Limited (UCIL) una fuoriuscita di 40 tonnellate di isocianato di metile (MIC), si sprigionò a causa della pressione e del vento come un geyser sulla città. Questo perché, per tagliare i costi dell’eccessiva produzione del pesticida (Sevin), si cominciò risparmiando sulla sicurezza. Il rilascio provocò sul momento 754 vittime, ma Amnesty International ne stima ad oggi più di 25.000, senza contare la contaminazione rimasta attiva negli anni, e le malformazioni genetiche di cui ormai tutta la popolazione del piccolo distretto del Bhopal soffre.
Il 7 Giugno 2010 otto dirigenti della Union Carbide , tutti indiani, sono stati condannati, a distanza di oltre 25 anni, per la responsabilità nella catastrofe del Bhopal, assieme a colui che allora era presidente della fabbrica: Warren Anderson, 81 anni, ad oggi latitante per evitare i 10 anni di carcere inflitti dalla corte indiana, per omicidio colposo, lesioni gravi, e per aver provocato danni permanenti facendo uso di tecnologie dannose. Tra le malattie più gravi di cui soffre oggi la popolazione, dopo occhi e polmoni, (con gravi malformazioni genetiche), ci sono fegato, reni, apparato digestivo e genitale, oltre al sistema nervoso e immunitario.
Un alto numero di vittime dopo la tragedia cadde in uno stato di spossatezza senza precedenti, che talvolta culminava in convulsioni o paralisi, e talora potevano persino degenerare in coma o morte. Inoltre non si è mai parlato abbastanza della contaminazione ambientale: in un’inchiesta di BBC Radio del 14 novembre 2004, si è mostrato come l’area sia ancora contaminata da migliaia di tonnellate di sostanze chimiche tossiche, che penetrano nel terreno soprattutto i periodi di forte pioggia; l’acqua risulta essere cosi contaminata che chiunque si fermi più di 10 minuti nel terreno, rischia di perdere conoscenza. Gli Stati Uniti hanno difeso l’azienda, dicendo che aveva fatto tutto quanto fosse possibile per aiutare le famiglie delle vittime; effettivamente nel 1989 la Union Carbide pagò 470 milioni di dollari per risarcimenti iniziali, ma ben pochi sono stati spesi per la causa, creando il più grande caso di corruzione nella storia del paese.
Solo circa 50 milioni sono stati spesi per costruire un ospedale a 22 km dal quartiere più colpito; ma poche persone hanno la possibilità di spendere le 300 rupie per farsi accompagnare in risciò fino all’ospedale. Si può parlare davvero di libertà, di democrazia, di sviluppo? Forse si dovrebbe creare vocaboli nuovi, perché è evidente che quelli usati fino ad ora non sono più sufficienti, né tantomeno credibili. Valeria Venturini