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Libia: eccessiva ingerenza o sostegno?

Intervista di Luigi Cascone
Traduzione di Romana Rubeo

Malika Benarab-Attou è membro della Delegazione per le relazioni con i Paesi del Maghreb e l’Unione del Maghreb arabo. Membro della Commissione per la cultura e l’istruzione del Parlamento Europeo e capogruppo dei Verdi Europei – Alleanza Libera per l’Europa, in seno al Parlamento stesso.

Nella crisi libica e, più in generale, nelle recenti rivolte che hanno interessato l’area del Maghreb, ciò che colpisce è l’incapacità europea di fronteggiare tali questioni. Proprio come in Bosnia e in Kosovo, l’Unione Europea sembra inadeguata ad esprimere una politica efficace sui temi della difesa dei diritti umani, persino quando le violazioni vengono perpetrate a un centinaio di chilometri di distanza. Come spiega tutto ciò?

Nell’analisi dei rapporti tra l’UE e i paesi dell’area Mediterranea e maghrebina, non si può esulare dai fattori storici e strategici. Nell’equazione nordafricana, il passato coloniale è un elemento chiave, specialmente per la Francia. Un passato che, come oggi, è purtroppo contrassegnato dalla preponderanza degli interessi economici, legati soprattutto allo sfruttamento e alla distribuzione di risorse energetiche derivanti da idrocarburi. Questa dimensione “strategico-economica” rende difficile qualsivoglia comparazione tra gli avvenimenti che hanno interessato il Kosovo e la Yugoslavia negli anni ’90 e quelli delle rivoluzioni arabe odierne.

L’ONU ha approvato una risoluzione che impone la no-fly zone, cosa ne pensa? Secondo il suo parere, come mai la comunità internazionale ha atteso così a lungo prima di condannare le atrocità in Libia?

Mi sembra evidente che il ritardo con cui la comunità internazionale ha risposto a questi eventi drammatici è dettato dal trauma che i conflitti iracheno e afgano hanno generato negli Stati Uniti e nella coalizione occidentale. L’Europa temeva di restare, ancora una volta, arenata per molti anni in una missione sul campo. Ad ogni modo, la risoluzione approvata dal Consiglio di Sicurezza mi lascia alquanto perplessa. Se da un lato era assolutamente indispensabile agire per fermare il massacro di Gheddafi, non sono sicura che questa sia la migliore soluzione possibile. La guerra non è mai la soluzione più giusta.

Il Parlamento Europeo ha riconosciuto il Consiglio Nazionale di Transizione di fronte ai governi nazionali. Questo atto politico ha notevolmente contribuito a indebolire la posizione di Gheddafi. Nello stesso tempo, l’UE ha attuato rapidamente le misure previste dalla risoluzione 1970 delle Nazioni Unite: embargo sulle armi, divieto di viaggio e congelamento dei beni per i membri della famiglia di Gheddafi; in questo senso l’UE si è spinta persino oltre le misure previste dalla risoluzione. L’Europa disponeva di altri mezzi per bloccare il Rais: ad esempio, a livello finanziario o commerciale, poteva bloccare qualsiasi flusso di denaro potenzialmente impiegato per finanziare i mercenari, principali responsabili dei più atroci crimini. Questi mezzi di pressione non avrebbero potuto lasciare indifferente il regime di Tripoli.

La situazione nella regione è esplosiva: un qualsiasi errore, un passo falso, potrebbero alterare l’equilibrio e le dinamiche regionali. Le migliaia di vittime della guerra civile nel corso degli anni ’90 in Algeria, confinante con la Libia, ci ricordano come un conflitto interno possa espandersi e degenerare.

I ribelli libici hanno chiesto più volte il sostegno militare dell’Unione Europea per difendersi dagli attacchi aerei del governo. Anche la lega araba ha chiesto l’istituzione di una no-fly zone e ci sono già migliaia di vittime. In questi casi drammatici, qual è la linea che divide il pacifismo dall’indifferenza?

Lo ripeto: era assolutamente necessario fermare la violenza di Gheddafi contro il suo popolo, così come è incontestabile la valenza del’azione umanitaria. Nello stesso tempo, però, bisogna considerare l’enorme importanza che il petrolio riveste nella decisione occidentale di intervenire in Libia.
Il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione che prevede un sostegno concreto alla popolazione libica, combinato però con il divieto di qualsiasi forma di ingerenza. In politica, è molto difficile stabilire confini netti, ma noi restiamo dell’idea che si debba sviluppare una risposta in grado di sostenere la lotta legittima del popolo libico per i diritti, senza intervenire con logiche di stampo neocolonialista.

Come giudica le azioni che l’UE ha intrapreso durante queste crisi? Vede delle prospettive per una politica estera comune dell’Unione?

I movimenti rivoluzionari del Nord Africa hanno dimostrato da un lato l’assenza di una reale politica estera comune dell’Unione Europea: d’altro canto, hanno sottolineato la necessità di tale politica, per consentire all’Europa di agire e di rappresentare un attore credibile. Bisognerebbe istituire quanto prima il Servizio Europeo per l’Azione esterna, previsto dal Trattato di Lisbona. Inoltre, sarebbe auspicabile che gli Stati membri si astenessero dall’intraprendere azioni individuali, come è avvenuto per la questione libica.

Volendo poi ragionare in una prospettiva più ampia, è ora che i paesi europei riconsiderino la loro politica verso l’area del Mediterraneo, con la quale condividiamo radici e civiltà. Se aspiriamo a ad avere un ruolo chiave in quella regione, dobbiamo attuare una politica di partenariato scevra da ipocrisie, specialmente per quanto riguarda le politiche migratorie. E’ indispensabile destrutturare una linea di pensiero, che vede gli immigrati come invasori e criminali. Dobbiamo assolutamente ripensare la politica della gestione delle frontiere, per garantire una collaborazione effettiva tra i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo.

Questo movimento, che alcuni commentatori hanno paragonato a una primavera dei popoli arabi, ha acceso il lume della speranza per milioni di persone che vivono nell’oppressione. La cacciata di Ben Ali, da parte di un popolo che afferma con forza le proprie aspirazioni democratiche, ha scatenato un processo che cambierà per sempre la geopolitica del Medio Oriente. In questo momento delicato, l’Unione Europa dovrebbe sostenere il movimento per le libertà, aiutando i popoli nel difficile cammino della transizione democratica e sorvegliando affinché non si instaurino nuovi regimi autoritari al posto di quelli cacciati con enormi difficoltà.

Quello che stiamo vivendo è un momento storico. L’Europa non può limitarsi esclusivamente ai bombardamenti e alla chiusura delle frontiere.