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Un giuramento della Pallacorda per l’Europa

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L’Europa è stata storicamente un crogiolo di sperimentazione politica. E’ ora diventata strutturalmente incapace di cambiare?

di Lorenzo Marsili

Le  recenti negoziazioni fra l’Eurogruppo e la Grecia sono risultate in un prolungamento di quattro mesi del programma di aiuti, con minime concessioni al nuovo corso richiesto dal governo greco e senza alcuna apertura su una ristrutturazione del debito.

L’ala sinistra di Syriza ha risposto duramente. In molti, da Stathis Kouvelakis a Costas Lapavitsas, hanno attaccato la strategia della leadership del partito di cambiare l’Europa dall’interno, rimarcando che solo un’uscita dall’euro e un default sul debito potranno permettere al governo di portare avanti quel nuovo corso promesso agli elettori e incarnato dal manifesto di Salonicco. La tensione è alta: alla riunione di fine febbraio del comitato centrale di Syriza la corrente di sinistra è stata battuta solo marginalmente su una mozione che avanzava queste proposte.

In Spagna, Podemos sta cercando di mantenere un difficile equilibrio fra rivendicazioni di sovranità e una retorica più conciliante sulla possibilità di trasformare l’Unione. Non è una coincidenza che intellettuali quali Toni Negri o alcuni settori della sinistra italiana si stiano mobilitando per spingere Podemos a un corso radicale-ma-europeista.

Certo, l’Europa non si cambierà in un giorno. Fanno bene Sandro Mezzadra ed Etienne Balibar a ricordare che Syriza ha guadagnato tempo nella prospettiva di stimolare una rottura costituente in Europa.

Ma quanto tempo è troppo tempo per una cittadinanza provata da anni di false promesse sulla possibilità di un “nuovo corso” europeo? E soprattutto, non c’è forse qualcosa di corretto nella critica che l’attuale architettura istituzionale dell’Europa la renda strutturalmente incapace di cambiare?

Cambiare politiche senza cambiare istituzioni?

La visione di lungo termine della Germania sembra essere quella di un’Europa votata all’export dove capitale umano, moderazione salariale ed efficienza istituzionale controbilanciano il vantaggio competitivo delle economie emergenti.

Anche dando questa visione per buona, c’è ampio consenso che non sarà una brutale svalutazione interna a portarci in questa direzione. Un’economia competitiva, come la Germania insegna, è basata su investimenti in educazione e ricerca, sulla transizione ecologica ed energetica, sul buon governo e la legalità. Non sull’impoverimento collettivo.

Ma quindi perché la migliore economia europea sta imponendo le peggiori politiche economiche a tutti gli altri?

Da una prospettiva di avversione al rischio, è quantomeno comprensibile che in una confederazione monetaria priva di unione politica ed economica ci sia poca propensione a mutualizzare rischi e oneri finanziari derivanti da paesi che comunque rimangono sempre “semi-sovrani”. Il dibattito sulle politiche economiche nel Consiglio europeo è caratterizzato da promesse di riforma avanzate informalmente fra capi di stato tramite una struttura decisionale basata principalmente sulla fiducia reciproca, dove gli unici meccanismi effettivamente vincolanti derivano dai target fiscali concordati.

Non è sorprendente che i target di bilancio siano diventati un tale feticcio in Europa. E non per il gioco di parole fra “debito” e “colpa” in tedesco – Schuld – ma per la percezione che questi rappresentino l’unica arma “costituzionale” nella debole Confederazione di stati semi-sovrani. Lo stupore di Yanis Varoufakis all’uscita dal suo primo Eurogrouppo è rivelatore di questa attitudine: “Una delle più grandi ironie,” ci dice, “è che non ci sia alcuna discussione macroeconomica. E’ tutto basato sulle regole.”

Certo, la nuova Commissione europea potrà avere introdotto un minimo di discrezionalità politica con la nuova parola magica della “flessibilità”, ma questo ammonta a poco più di un gioco di qualche zero-virgola sugli stessi target di bilancio.

In questo, l’ala sinistra di Syriza non ha tutti i torti: è difficile immaginare una situazione in cui un’evoluzione del rapporto di forze all’interno delle istituzioni attuali – ad esempio, attraverso la vincita di un secondo partito anti-austerity – porti a un cambiamento significativo delle politiche europee senza prima un cambiamento nelle strutture decisionali. Più realistico è immaginare che ci si accordi su un aggiustamento moderato – gli zero-virgola – o che si vada verso una paralisi decisionale dovuta a un perdita di fiducia fra i leader dell’Eurozona.

Senza una trasformazione dell’Unione europea, o per lo meno dell’Eurozona, in un’unione politica di stati federati che condivida politiche fiscali, economiche e sociali, senza una parlamentarizzazione del dibattito, continuerà fatalmente a mancare uno spazio dove la lotta politica e il cambiamento nei rapporti di forza possano effettivamente portare a un cambiamento sostanziale di orientamento politico. E a un certo punto l’opzione “nazionale” di uscita dall’Unione e default sul debito – che sia attraverso una retorica di destra o una di sinistra da “socialismo in un solo paese” – comincerà a risuonare convincente ai più, e a ragione. Joseph Stiglitz centra in pieno la questione quando scrive che “ o ci sarà l’Europa politica o non ci sarà l’euro”.

Come ci ricorda Thomas Piketty in una recente intervista con Pablo Iglesias, è necessario uscire dall’ipnosi collettiva che i trattati europei non possano essere modificati. In linea di principio, ci sarebbe un peculiare allineamento di interessi per un cambiamento istituzionale. Non è  infatti solo interesse della sinistra, o degli stati più indebitati, di democratizzare e de-nazionalizzare le procedure decisionali accentrare nel Consiglio europeo. E’ ugualmente nell’interesse dei settori economicamente più avanzati, che rischiano di ipotecare il proprio benessere futuro ingabbiandosi in un sistema di governance che perpetua cattive decisioni per tutti.

Un giuramento della Pallacorda per l’Europa

Il 20 giugno 1789 i rappresentanti del Terzo Stato lasciarono gli Stati-Generali, si definirono Assemblea Nazionale e giurarono di “non separarsi in nessun caso fino a che la Costituzione francese non sia stabilita”.

Il Giuramento della Pallacorda marca un cambiamento decisivo nelle dinamiche politiche della Rivoluzione francese. La richiesta non è più quella di migliori politiche, ma di una trasformazione nel sistema di governo stesso del paese, considerato incapace di rispondere alle esigenze della cittadinanza e strutturalmente agganciato ai privilegi di aristocrazia e clero.

L’Europa ha bisogno oggi del suo Giuramento della Pallacorda. I leader nazionali, a partire da Hollande e Renzi, devono andare oltre la semplice ricerca di una minima flessibilità di bilancio e porre fortemente, dall’interno del Consiglio europeo, la questione dell’integrazione dell’Unione europea o dell’Eurozona. I partiti europei, così come il Parlamento europeo in quanto istituzione, devono farsi attori di un movimento costituente anche attraverso azioni politiche non convenzionali e di rottura. E i movimenti sociali,  infine, non possono più limitarsi ad attaccare il regime di austerità: devono essere allo stesso tempo più radicali e più propositivi ponendo con forza la questione di una ricostruzione costituzionale dello spazio europeo.

Quando le istituzioni iniziano a fallire sistemicamente vengono eventualmente rimpiazzate o implodono. Dipende dall’agire politico collettivo di anticipare e guidare questi processi. Il Re di Francia, alla fine, acconsentì alle richieste del Terzo Stato. Ma era oramai troppo tardi per salvare il suo regno o la sua testa.